martedì 27 luglio 2010

Inutilità di inutilità





L’ennesima cattedrale nel deserto. Si potrebbe definire così il gigantesco edificio costruito sul piccolo pendio del quartiere Sant’Antonio di Catanzaro. Purtroppo, però, quel deserto sopra menzionato tanto isolato non è, visto che la struttura si trova nei pressi di uno degli snodi principali d accesso e di uscita per e dalla città, e chiunque si trovi a passare da lì non può non accorgersi di quelle tonnellate di cemento accatastato, corredato di finestre e cortile. Ero quasi un ragazzino, circa 15 anni fa, quando iniziarono i lavori per l’edificazione dello stabile. Sarà un centro commerciale? Una nuova scuola? O cos’altro? Queste erano le domande che ci ponevamo con una certa curiosità nell’osservare l’opera che a man a mano prendeva sempre più forma. Ma ecco spuntare la risposta (non) ufficiale alle nostre attese: sarà un opificio. Intanto il tempo passa, la struttura vede il suo completamento, ma non la sua messa in funzione. Nel frattempo, tre giunte comunali si alternano sugli scranni di Palazzo De Nobili, e corre voce di una richiesta, poi approvata, di cambio di destinazione d’uso dell’edificio. Questa volta si parlava di un centro direzionale da fornire in locazione ad un importante ente pubblico, che tuttavia nicchiava l’offerta, anche a causa del solito tourbillon di manager pubblici che in rapida successione approvavano o ponevano diniego all’utilizzo della struttura. Ora, l’immobile (nel senso più stretto del termine) appartiene ancora al suo vecchio proprietario, mostrando già i suoi segni di cedimento dovuti non certo all’usura, bensì all’ineffabile trascorrere del tempo. La ruggine si è impossessata dei suoi balconi e dei suoi scorrimano, ogni tanto si scorge qualche crepa sui muri, e le vetrate rigorosamente a specchio riflettono tutta la sua vacuità. Solo qualche metro più in là, probabilmente a far da contraltare alla struttura, ecco scorgere una larga distesa, anch’essa preda dell’inutilità, a sfregiare ancora una volta l’immagine della città. Era , o meglio, è ancora l’area dell’ex mattonificio che, nonostante da quasi trent’anni non sia più in funzione, ha deciso di mantenere la sua vocazione, conservando il suo nobile prodotto finito ( i mattoni) all’aria aperta. Un disgustoso cumulo di macerie, di vecchi edifici crollati, di lamiere arrugginite alla mercé di un quartiere che assiste attonito davanti a cotale scempio. Una cosa in comune, oltre all’evidente inutilità, le due strutture, così diverse tra loro, ce l’hanno. Sono entrambe di appartenenza dei legittimi proprietari, aspiranti imprenditori o capitalisti dai larghi possedimenti che, lungi dall’intraprendere nuovi progetti e rischiosi investimenti, preferiscono attendere (anche in eterno) l’aiuto da parte dell’ente pubblico di turno. Un piccolo stralcio di quel manifesto non scritto dell’imprenditoria locale, avallato da una classe politica che più che dirigere sembra subire i dettami del capitalismo(si fa per dire) calabrese, sempre in attesa di quella gallina dalle uova d’oro rappresentata dallo Stato e dai suoi enti territoriali. Tuttavia, la gallina ha smesso da tempo di covare, e l’unico uovo rimasto è quello sodo del famoso film di Paolo Virzì, che una volta ingurgitato non va né in su né in giù, in attesa ,magari, di un colpo al petto da parte della società che lo faccia digerire.

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